Il suo vero titolo è
L’ultimo giro della spirale.
A Diego, che ha letto L’ultimo elfo, L’ultimo orco
e non è riuscito a finire Gli Ultimi Incantesimi,
con il nostro grazie per aver sottratto i suoi 11 anni all’eternità
così da permetterci di conoscere il suo sorriso.
Capitolo 1
Kail lo Stolto
1
Kail era vissuto in mezzo agli alberi, sua madre ci campava raccogliendo la legna.
Un’unica grande foresta copriva le poche, ripide e appuntite colline a occidente della Grande Piana, la terra degli yurdioni.
In basso c’erano i boschi di betulle e larici, più in alto cominciavano quelli di abeti e di pini. Invece che in una tenda di feltro nero, loro vivevano in una capanna circolare, fatta di rami di betulla e pino, che era aperta in alto nella parte centrale, così che il fumo del braciere potesse andare fuori.
Scandita da qualche radura, la imponente selva era infestata dalle linci e dai lupi, che non solo erano creature cui era facile tenere testa, ma anche buone da mangiare. Le colline boscose, quindi, erano di gran lunga la terra migliore di tutta la nazione degli yurdioni, popolo guerriero per antonomasia, per scelta, per vocazione, per passione e per destino, e perché oltre la guerra mai avevano saputo fare altro.
Gli yurdioni erano i signori del nulla, i padroni degli orizzonti vuoti: nella loro sconfinata terra, paludi si alternavano a steppe desolate dove si crepava dal caldo nella corta estate, e di freddo in tutto il resto del tempo dell’anno. Tre mesi di inferno e tutto il resto inverno, era il detto. Nell’inferno, nugoli di zanzare talmente fitti da oscurare il sole. Le zanzare portavano le febbri, si spartivano il poco sangue che ancora non era stato versato sui campi di battaglia, riducevano la faccia di tutti ad una ininterrotta profusione di pruriginosi bubboni. Per questo gli yurdioni erano così fanaticamente entusiasti, fantasticamente contenti di fare la guerra. La teoria, quotidianamente ripetuta dalle gerarchie militari, era che gli dei avevano dato ai loro antenati una terra così squisitamente inospitale per preservare, anche nelle generazioni a venire, le virtù guerriere dalla tentazione di non fare la guerra a nessuno e starsene a casa propria a godersi uno scranno sotto le terga davanti al focolare e qualcosa di buono da mangiare.
Tutte le loro sempiterne guerre fratricide avevano la promessa che, alla fine, la tribù che avrebbe riportato la definitiva vittoria, avrebbe guidato il riscatto, la conquista del paradiso, terre verdi, accoglienti, piacevoli, affettuosamente miti, ragionevolmente fertili e senza troppe zanzare: luoghi dove vivere potesse essere una gioia, perlomeno non una dannazione.
Tutte le loro guerre di occupazione cominciavano con la promessa di una terra opulenta che altro non aspettava che di essere conquistata, abitata da popoli meno abili nella nobile arte della guerra, che altro non attendevano che di essere sterminati o resi schiavi: un preannunciato destino.
L’altra ipotesi che spiegava la scarsa appetibilità del paese era che, tutto sommato, con tutta la loro armata in fermento permanente, con tutto il loro ardore per ogni possibile declinazione di morte violenta, gli yurdioni agli dei non stessero poi così grandiosamente simpatici, che non fossero loro i figli più amati. Questo, però, era meglio non pronunciarlo e tenerselo per se medesimi: uno di quei pensieri in cui la mente inciampava da sola, al momento di scivolare nel sonno, e che , se tirato fuori al momento inopportuno, poteva procurare una fine particolarmente precoce e particolarmente dolorosa.
Kail e Ranail avevano sempre giudiziosamente fatto le loro esercitazioni, con la pioggia, il sole, la grandine e la buriana, avevano mangiato le loro focaccine, avevano giurato, le loro voci con quelle degli altri, che altro non attendevano che poter uccidere e morire, e se ne erano tornati a casa, lieti che la giornata fosse finita e che per un’intera luna potevano considerarsi liberi da quello strazio. Ranail, che era il più piccolo e di gran lunga il più trasgressivo, osava persino dirlo ad alta voce, mentre Kail piuttosto si sarebbe mangiato la lingua, e scandalizzato redarguiva l’altro, che no, non si doveva dirlo, nemmeno pensarlo, essere yurdioni, la yurdionità, lo spirito guerriero erano il giusto destino, la corretta strada.
Ranail alle esercitazioni aveva una vocazione a mettersi nei guai, era svogliato, sfrontato e pigro, un atteggiamento che ispirava ad ogni istante l’idea che di tutta quella roba a lui non importasse un accidenti e che avrebbe preferito trovarsi altrove. La terminazione in ail dei loro nomi non piaceva, faceva poco yurdione, e a Ranail non piaceva che non piacesse, era un altro dei numerosi punti a loro sfavore. Kail sarebbe stato il più dotato dei due nelle nobili arti della guerra e dell’obbedienza, ma spesso affrontava aggressioni di marmocchi o peggio del capo villaggio per proteggere il fratellino, e questo lo squalificava.
Ogni volta Kail si riprometteva che ce l’avrebbe messa tutta a cercare di diventare uno yurdione migliore, così da trascinarsi dietro il fratellino reprobo sulla retta via.
«Ti faccio un regalo», disse a Kail. Aveva appena sussurrato. La frase era singolare. Gli unici regali possibili tra gli yurdioni erano roba da mangiare: un favo di miele, mezza focaccia, ma non c’era nulla del genere in casa, Kail lo sapeva.
La madre si guardò attorno come per controllare che non ci fosse nessuno. Era un gesto assurdo: erano loro due, soli, in una capanna in mezzo a un bosco, sotto un temporale, ma la madre non riuscì a trattenersi da quel gesto di precauzione, poi tirò fuori uno strano oggetto di vecchio legno, piccolo e circolare, appuntito da un lato, con strani segni bruni.
«Io lo chiamo cosa che gira», gli disse trionfante. «Me lo ha regalato mia madre, a lei lo aveva dato la madre di lei e così via. E’ vecchissimo. Ce lo passiamo di madre in figlia, Ognuna deve darlo a sua figlia, ma io non ho avuto figlie, e quindi lo avrai tu».
Quella lunga fila di madri che si passavano qualcosa lasciò stordito Kail. Era un’informazione sconvolgente. Bizzarra. Vagamente oscena. Sbagliata. Non era vagamente oscena, era oscena e basta. Ed era sbagliata. Per un curioso scherzo dell’universo, fuori da qualsiasi decenza e da qualsiasi logica, i guerrieri, che erano le massime creature possibili, invece che nascere dal torace di un altro guerriero, come avrebbe dovuto essere, nascevano dal ventre di una femmina, e le femmine erano la creatura minima. Ogni femmina era stata nel ventre di un’altra femmina, questo era ovvio, ma proprio perché era ovvio non era il caso di sottolinearlo e ricordarlo, era già abbastanza ripugnante così.
Quindi c’era questa cosa buffa che ogni guerriero aveva una madre, che però restava buffa, al massimo bizzarra, se il guerriero alla madre non ci si affezionava. Lui alla sua ci si era affezionato.
Kail voleva essere uguale, uno yurdione qualsiasi che non doveva vergognarsi di niente, e ogni istante che passava si allontanava sempre di più dall’ideale, come una foglia caduta nel torrente, inesorabilmente portata via verso il buio e il basso.
Inoltre, finale crollo di un onore a quel punto già vacillante, Kail era omaggiato di un oggetto che sarebbe dovuto andare ad una femmina: per scendere più in basso avrebbe dovuto essere considerato dello stesso livello di un verme.
Non solo suo fratello era morto e mai più avrebbero corso insieme nel profumo dei pini, ma sua madre stava equiparando la sua esistenza a quella di una femmina, anzi di una femmina mancata.
Non c’era tra gli yurdioni il concetto di dinastia, nemmeno quello di famiglia: Kail li avrebbe poi scoperti tra gli uomini e gli orchi, insieme al nome del minuscolo oggetto: era una trottola. Anche la consolazione non esisteva tra gli yurdioni. Anche quella parola l’avrebbe scoperta più tardi, da soldato invasore. Tra gli yurdioni c’era lenire e voleva dire dare il decotto di papavero a qualcuno che stava urlando per il dolore, ed era vietato, o, se non proprio vietato, era disdicevole e non incoraggiato. Il dolore era un dono degli dei per rendere più forte il popolo degli yurdioni. Fu lenire che lui usò nella sua testa per chiarire quello che stava succedendo. La madre stava cercando di lenire il suo dolore con quell’oggetto. Lenire, come per l’addome del fratellino.
Qualcosa che non era consentito, ma poteva essere tollerato.
Kail ebbe l’impressione di avere l’anima spaccata in due. Da un lato c’era la sua volontà di essere yurdione, la sua fedeltà assoluta al suo popolo, l’unica appartenenza che dava un senso al suo esistere. Dall’altro lato, c’era nella sua testa, pieno di vergogna, il dolore per la morte di Ranail, che non era nella sua testa uno yurdione qualsiasi, ma Ranail. Quando l’anno prima era morto un ragazzo compagno alle esercitazioni, un bestione odioso che Kail e Ranail evitavano accuratamente, lui aveva sopportato con stoico coraggio la perdita. Kail si era ammirato da solo per quanto non gliene importasse niente, mentre aver perso Ranail era ogni istante uno strazio. Era sbagliato, Ranail per lui avrebbe dovuto essere uno yurdione qualsiasi, invece era suo fratello Ranail. E avrebbe dovuto indignarsi per il decotto, e invece no: era sollevato che alla fine Ranail non avesse più sofferto, si fosse semplicemente addormentato tra le braccia della madre come un passero nel nido.
Non era morto uno yurdione qualsiasi, era morto Ranail. Kail era in ginocchio, con l’orrore che gli riempiva l’essere per il vuoto del fratellino che non c’era più e mai più ci sarebbe stato. E ad aumentarlo, c’era il dolore per il dolore della madre, che anche quello non avrebbe dovuto esserci. Per non offendere sua madre già addolorata, per non ferirla ulteriormente, lui restava lì ad ascoltare quelle cose sbagliate. Kail giurò a sé stesso che nessuno ne avrebbe saputo mai nulla di tutta quell’orrida storia.
Nel suo lato pieno di vergogna, c’era l’essere figlio di sua madre, l’amare essere figlio di sua madre, che già così, in astratto, sarebbe stato sbagliato, in più, nel concreto, sua madre era particolarmente sbagliata, la più sbagliata delle madri.
4
«Guarda è una specie di cosa strana», gli spiegò la madre.
Fece ruotare la trottola che restò in equilibrio sulla sua parte appuntita, girando e girando e nella rotazione le macchie brunastre crearono l’immagine circolare che ricopre il guscio delle chiocciole.
Kail si mise le mani alla bocca per non gridare.
Era un oggetto incredibile, che faceva cose straordinarie.
«Non ho figlie femmine, e così lo avrai tu. Per farlo girare devi solo imparare: un movimento secco col polso, vedrai imparerai. Tuo fratello aveva imparato subito». Si interruppe, sorrise e arrossì. Nello stesso giorno aveva pianto, quasi sorriso ed era arrossita. Se a quel punto fosse comparso un asino che volava, Kail non si sarebbe stupito più di quanto già era. E nulla poteva succedere che lo spingesse a vergognarsi più grandiosamente di quanto non stesse facendo.
«Sai», si giustificò sua madre,«eravamo io e lui e lui era così triste quando tu eri lontano.» Kail annuì. In realtà era ogni istante più scandalizzato. Se quando erano insieme, invece di mostragli cose che giravano la madre, avesse parlato a Ranail dell’onore yurdione, il fratellino sarebbe stato più disciplinato, più decoroso. E insieme Kail fu vergognosamente geloso di quella complicità che c’era stata tra gli altri due, vergognosamente contento di esserne finalmente messo a parte e vergognosamente disperato perché il fratellino che era stato per anni il suo doppio e la sua ombra non era lì con lui a far girare la trottola.
E dopo tutto quello, la madre aggiunse una frase ancora più folle, e, benché fossero solo loro due dispersi in una foresta, sotto un temporale, per pronunciarla abbassò ulteriormente la voce.
«Non mostrarla a nessuno, mai. Non dirlo a nessuno, mai».
Il segreto, come il mentire, era in un certo senso una delle colpe assolute, come scappare su un campo di battaglia o disubbidire agli ordini di andare a morire. Era la dissonanza al concetto base dell’essere yurdione, che era far parte di un corpo unico, come il formicaio, l’alveare, il nido di vespe, dove quello che contava era l’insieme e i componenti avevano senso solo in quanto parti dell’insieme. Il popolo degli yurdioni costituiva un corpo, un unico corpo. Tenere qualcosa segreto era staccarsi dagli altri, non farne parte. Come un dito o un orecchio o un braccio o un naso che improvvisamente se ne andasse per conto suo, una formica che si tenesse un granello per sé invece che portarlo al formicaio. Un crimine. L’origine di tutti i crimini, l’inizio di tutti i tradimenti. Era sbagliato.
Kail era violentemente scandalizzato, brutalmente sdegnato, ma anche affascinato dall’accenno di sorriso della madre. Era straordinariamente bella la faccia di una persona che sorride, persino una faccia sfregiata. Osò pensare, ed era un pensiero vagamente blasfemo, essendo, in fondo, la yurdionità una religione, che era un peccato che tra loro sorridere fosse così accoratamente disapprovato, anche se non proprio vietato come piangere. Soprattutto, però, era abbagliato, stregato dal ruotare della trottola, l’equilibrio, la velocità, il disegno del guscio della chiocciola che ci formava nel movimento. Era qualcosa che entrava dentro.
Era piacere, piacere puro, un piacere che non aveva nessun senso, non era da mangiare, non era vittoria su un avversario, non era mettersi vicino al fuoco quando nevicava.
Era piacere e basta.
Lui e la madre si guardarono. La madre stava facendo un gesto grave, Kail se ne rese conto. Creando un patto tra di loro, stava staccando loro due dalla fedeltà assoluta, incondizionata al corpo degli yurdioni.
Eppure non protestò, si indignò certo, ma solo dentro di sé e più che altro perché se no pareva brutto non indignarsi, ma era un’indignazione di dovere e di facciata.
In quel giorno di dolore per la perdita di Ranail, le infinite sfaccettature dell’onore yurdione si disperdevano come il fumo della fascina. Il movimento della trottola gli piaceva troppo, era genio, talento, ingegno. Anche suo fratello lo aveva amato. Lui e suo fratello erano stati uniti anche in quello, anche in quello separati dagli altri. La sua yurdionità si stava infrangendo, era meno granitica di quanto avrebbe dovuto, era così e bisognava prenderne atto.
Kail abbassò gli occhi con tutto il suo indicibile imbarazzo, il suo strisciante voltastomaco, e restò a lungo a cercare di riprodurre il movimento della trottola.
«Mia madre mi ha anche passato i vostro nomi. Li aveva avuti da sua madre e lei dalla sua. Tutti nomi che finiscono in ail, non sono frequenti tra gli yurdioni, così potete riconoscere quando incontrate qualcuno con lo stesso sangue. E loro, mia madre, sua madre, e le madri prima di loro dicevano che così si ripete il nome di un antichissimo guerriero che era stato, ecco come dire, quello che aveva cominciato questo fiume di gente».
Il voltastomaco smise di strisciare e divenne delle dimensioni di un porcospino, uno di quelli belli grossi, grassi, panciuti e spinosi. «Capisci? C’è stato un guerriero che è riuscito in un accampamento a identificare e riconoscere la bambina che aveva messo al mondo. Non è straordinario?».
Straordinario? Era nauseante, Faceva schifo solo pensarci. Perché cercare una figlia? Uno yurdione era uno yurdione, una bambina yurdione o un’altra, che differenza faceva?
A meno che essere il maschio che ha ingravidato una femmina non fosse come essere fratello. Come Kail non sentiva Ranail come uno qualsiasi così doveva essere successo a quell’antico guerriero. Era vergognoso, imbarazzante, ma anche oscuramente affascinante.
«Un antichissimo guerriero, tanto, tanto, tanto tempo fa, un tale quantitativo di anni fa che nemmeno il capo villaggio sarebbe capace di contarli, rintracciò la femmina che aveva generato, le consegnò la trottola, l’ascia e le disse che lui conosceva il nome di sua madre e di quello che l’aveva ingravidata e che voleva che lei chiamasse i figli maschi con quel nome, qualcosa che finiva in ail, e le figlie femmine come quella madre, e le insegnò a fabbricare la trottola, perché ognuna delle sue bambine potesse averne una».
Quel guerriero lì come accidenti faceva a sapere il nome del tizio che aveva ingravidato sua madre?
Salve, sono fan della sua saga da quando avevo dodici anni, quando è uscito L’Ultimo Elfo. Oggi ho finito di leggere L’ultimo giro della spirale (che è un titolo più significativo e più adatto a chiudere questo splendido ciclo). Avevo un paio di domande sulla serie (che rileggo dal principio ogni volta che esce un nuovo libro, e talvolta anche quando un nuovo libro non è uscito). Anzi, più che un paio di domande una domanda e una nota sul libro (che forse dovrei segnalare all’editore e non a lei): la domanda riguarda Giada, la sposa di Sire Arduin. Ne L’Ultimo Orco viene detto che è figlia di Dardrail Quarto, detto il Crudele per la ferocia con cui ha affrontato gli Orchi. Ma prima di Arduin non c’erano gli Elfi? Oppure Dardrail faceva parte di una stirpe di Re umani venuta prima di Arduin e dopo la caduta degli Elfi? So che forse può sembrare una domanda stupida, che non c’entra col senso generale del libro, ma era una mia curiosità. La seconda nota che volevo fare riguarda l’ultimo libro. Nelle descrizioni finali dei personaggi c’è un errore, piccolo ma che però può mandare in confusione chi magari non rilegge i libri prima di questo prima di leggerlo: viene detto che Chiara è figlia di Arduin II il Saggio e Aurora, e non di Rankstrail. Ovviamente poi nel libro viene chiarito che è figlia di Rankstrail. Comunque volevo farle i complimenti per questi libri, che vengono catalogati come libri per ragazzi ma che dovrebbero essere letti da tutti, perché spiegano con semplicità quello che in realtà dovrebbe essere ovvio, ma che in questo mondo viene meno, come il rispetto per il diverso e la misericordia verso tutti, anche quelli che sembrerebbero non meritarla. Mi dispiace che questa saga sia finita, ma la fine è stata degna del resto della storia. Spero di riuscire a trovare ancora libri così, semplici ma allo stesso tempo profondi.
Sono completamente innamorata di questa saga, dell’umanità con cui vengono affrontati i temi più duri, dell’ironia che caratterizza molti personaggi e della loro profondità. Non saprei dire quale preferisco, so certamente che ormai sono parte di me e lo saranno sempre. Complimenti, Silvana, la ringrazio per avermi fatto crescere piangendo con Robi, ridendo con Inskay ed affrontando le difficoltà con coraggio come Rankstrail nel mondo degli Orchi.